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In questa pagina potete leggere tutta la lettera che, via Facebook, Lou del Bello ha spedito a Paolo Madron, direttore di Lettera 43. Conosco Lou. E’ una ragazza di 26 anni che studia e lavora a Bologna, e prova a fare la giornalista da cinque anni con tutti i mezzi e le sofferenze che racconta in questa lettera (e sbarca il lunario facendo tutta la gamma dei lavoretti “da ragazzi” che ci sono in questo paese, cameriera in un pub incluso).
Voglio dire che Del Bello non sta facendo vittimismo e raccontando balle. Mi risulta che sia così. E io la conosco perché tra le sue peregrinazioni c’è il volontariato al festival del giornalismo di Perugia, dove Lou lavora fin dalla prima edizione. Corre avanti e indietro da un dibattito all’altro, ne scrive i resoconti, cura le pagine web, dalle 7 di mattina alle 10 di sera. Sono in centinaia a Perugia a far questo. E vogliono tutti essere giornalisti. Non “diventare” giornalisti per grazia ricevuta. Quei ragazzi sentono già di esserlo, giornalisti.
Ma Madron non ha detto no - Questo detto, il messaggio di Lou a Madron non mi trova del tutto d’accordo. E scrivo questo post perché credo che possa aiutare lei e quelli che si trovano nella sua situazione a capire meglio di quali sofferenze e pene stiano patendo. Ma prima vorrei dire, non a difesa di Madron ma a miglior comprensione della situazione, che il direttore di Lettera43 a Lou ha proposto una collaborazione. Con notizie fresche.
“Mi aspettavo un colloquio” - Lou risponde: “Mi aspettavo un colloquio”. Ma forse accade che il giro delle assunzioni a Lettera43 sia finito e mi pare che Madron abbia fatto uno sforzo serio per contrattualizzare molti giovani giornalisti.
Per noi era lo stesso - Cara Lou e cari tutti, ma voi pensate davvero, come certe volte si legge nei post dei blogger avvelenatori di pozzi, che noi siamo nati con la divisa di giornalisti, il conto in banca e il privilegio nelle vene? Oddio, i privilegiati ci sono sempre stati, ma la grande maggioranza di noi ha sputato sangue per farcela. Potrei far nomi ma non ho il permesso di farne. Cito qualche ricordo sparso senza dirne il protagonista. Un famoso giornalista sportivo di Repubblica che, da collaboratore, scriveva i pezzi in automobile, parcheggiato sotto il giornale, e poi li dettava dalla cabina in piazza Indipendenza. Se l’avessero beccato in redazione, si sarebbe potuto pensare che stava tentando di farsi assumere surrettiziamente.
Personalmente ho fatto anni di trasferte a mie spese. Mi autodefinivo “free lance”, ma ero un pezzente, avevo già due figli e lavoravo alla rivista di un ente di promozione sportivo dove prendevo uno stipendio da sussidio di disoccupazione. Andavo a New York per le maratone degli anni ‘80 e collezionavo decine di pezzi, alcuni firmati per Repubblica, altri con pseudonimi per quattro cinque giornali a volte tra loro concorrenti, finivo di scrivere a ore lunari e col mal di testa per cucinare sempre la stessa zuppa con un sapore diverso.
Alcuni pezzi non mi sono stati nemmeno mai pagati e quelle trasferte erano solo autopromozione, visto che ne coprivo i costi con un conto corrente del banco di Napoli che permetteva di andare in rosso di 20 milioni (sia benedetto ora e sempre chi mi aiutò ad averlo, non possedendone io i requisiti, non avevo un accidente).
Conosco il caso di un collega che è rimasto precario per vent’anni. Ma otto-dieci anni di “abusivato” sono stati la regola per gran parte dei cronisti oggi in attività. Forse a Milano era diverso, ma non era diverso in tante redazioni. Conosco persone che sono entrate in un giornale a 20 anni con una borsa di studio e che stanno ancora lavorando 14 ore al giorno. Poi dice “hai fatto carriera”, ti pagano bene. Sì ma mi sono ammazzato di lavoro e forse non ho avuto una vita (la prima persona è narrativa, non sono io il collega citato). Vi racconto tutto questo perché lo sguardo su ciò che siamo oggi ci fa apparire ai vostri occhi come arrivati, benestanti, privilegiati e stronzi. Ma eravamo come voi. E ne abbiamo mangiato di “zuppa”, anche molto peggiore di quella di Lou Del Bello.
I perdenti ci sono sempre – E certo, anche nelle generazioni nostre ci sono stati molti che hanno dovuto rinunciare. Fare altri mestieri. Il giornalismo non conosce sanatorie o condoni. E forse tra chi non è “entrato” c’era gente validissima, ci ho pensato spesso, “chissà quanti erano più bravi di me”.
Cosa sto dicendovi, ragazzi? Che se un direttore vi risponde “portami idee”, “portami notizie”, vi ha già detto una cosa importante. Non vi ha aperto la porta, mi vi ha lasciato uno spiraglio. Poi sta a voi lavorarci sopra. La risposta brutta davvero sarebbe stata la porta chiusa.
Ma esattamente come nel racconto di Kafka “Davanti alla Legge”, ognuno è responsabile del suo non varcare una porta aperta. Costa fatica? Oh sì molta fatica, fatica e tanta “merda” da mangiare. Tanto lavoro, ma anche tante volte in cui dirai sì volendo dire no, in cui scriverai un pezzo in cui non credi, in cui piegherai la testa, perché prima o poi la testa la piegano tutti, e chi dice di non averlo mai fatto è un mentitore o uno abituato a farla piegare agli altri.
Oggi il giornalismo è più debole, si può entrare con più “armi” – E non avrai mai la certezza di avercela fatta, fino a quando non ti volgerai indietro e vedrai la strada fatta. Il giornalismo non è l’avvocatura o la medicina. E’ merce deperibile, instabile e soggetta a furto. Ma se ce l’hai dentro questo è il gioco da giocare. Voi non siete sfortunati e noi privilegiati. La merda nel menù è sempre stata questa. Solo che adesso siete in molti di più a volerla mangiare. Ma con più carte in mano. Perché la rete apre alla professione libera molto più di quanto fu per noi. Perché il giornalismo in questo momento è più in crisi di prima e “sa” meno cose di prima. Si sa debole. Scavate fra le opportunità dell’approfondimento o del giornalismo dei dati o di quello d’inchiesta. Troverete molto, a patto di non voler essere come loro, i giornalisti affermati, e di essere voi e cazzuti, preparati, orgogliosi e forti della vostra cultura digitale.
La “porta” è sempre aperta per te, da qualche parte.
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